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Voglio Morderti Il...
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Voglio Morderti Il...

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Год написания книги: 2021
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Se non mi avesse baciato seduta stante, mi sarei arrampicata su di lui come se fosse stato un fottuto albero e l’avrei fatto succedere.

Questa volta, quando avevo cercato di abbassargli la testa, lui mi aveva lasciato fare. L’odore di bosco e di uomo pulito aveva riempito il mio naso prima che le nostre labbra si incontrassero.

Questo coglione stava sorridendo?

Sì. Sì, stava sorridendo.

E in quel momento era cominciato lo strapazzo.

Avevo infilato entrambe le mani tra i suoi capelli folti, scuri, non-proprio-selvaggi, avevo premuto le mie tette contro di lui, avevo inclinato la testa e mi ero concentrata sul farlo volere.

Quello che era cominciato come una delicata esplorazione era diventato un attacco violento con pressione e respiro affannoso e un desiderio di mordicchiare, morsicare, lasciare segni che non avevo mai provato prima.

Avevo intrappolato il suo labbro superiore tra i miei denti e lo avevo succhiato. Il suo ringhio mi aveva colpito basso, nell’addome, e proprio mentre stavo pensando a come fare per avvicinarmi, lui mi aveva preso per le natiche e mi aveva sollevata.

Dea. Volevo sentire ogni centimetro di lui premuto contro di me. Volevo strofinarmi contro di lui. Volevo… volevo e basta.

Aveva risposto alla mia aggressione frontale, la sua bocca dura ed esigente, e mi piaceva.

Le nostre lingue si erano attorcigliate in una guerra di calore e passione per non so quanto tempo.

A un certo punto mi era venuto il pensiero fugace che, praticamente, eravamo nel bel mezzo della mia festa.

Ma… chi se ne frega?

Lui era sexy, il suo bacio rovente, e io volevo imprimere il suo corpo muscoloso, il suo sapore, la sensazione delle sue labbra nel profondo della mia anima.

Poi aveva ammorbidito il nostro bacio.

La qual cosa era avvenuta quando il mio cervello aveva ripreso a funzionare.

La qual cosa era avvenuta quando mi ero resa conto di essere avvinghiata a lui come una spogliarellista squattrinata nel mezzo di una lap dance privata.

Poiché non lavoravo per le mance ed ero nel mio soggiorno, circondata da amici e colleghi di lavoro, probabilmente sarebbe stata una buona idea scendere da quell’albero villoso e sexy sul quale mi ero arrampicata.

Ero scivolata giù dal suo corpo, desiderando che lui non si sentisse il mio personale regalo di compleanno. Non poteva essere un regalo per me? Per piacerissimo?

Magari.

Non nel mezzo della mia festa di Halloween.

Ma magari.

“Sei ubriaca.” Mi aveva sussurrato le parole all’orecchio, ma comunque erano cadute con una spiacevole fermezza.

“No. Non lo sono.” Sfortunatamente, in quel momento il mio corpo aveva scelto di tradirmi e mi era venuto il singhiozzo.

“Uh-huh.” Mi aveva girato i capelli dietro l’orecchio, passato il pollice sulle labbra e in generale mi aveva fatto rimpiangere – duramente – quegli ultimi bicchierini. Perché altrimenti, forse, avrei preso altro di lui. Altro suo calore, altro suo odore e altro della sua bocca. Proprio lì e in quel momento, alla mia festa di Halloween.

Poi era sparito.

Il patetico bastardo se n’era andato.

Gli uomini fanno schifo.

Certo, aveva salutato.

E mi aveva ricordato che avevo il suo numero.

Aveva anche detto che sarebbe stato interessato a sentirmi. E quando aveva detto “interessato”, avevo pensato che intendesse… forse, entusiasta?

Ma che cazzo, poi. Mi aveva lasciato eccitata e insoddisfatta, il coglione. Anche se ero circondata da amici e colleghi a una festa che io ospitavo, comunque lui aveva lasciato me.

Prima che potessi decidere se ero arrabbiata, triste, o forse anche solo minimamente grata, un tizio che reggeva un’enorme borsa di carta aveva gridato, “Megan! Sto cercando una certa Megan.”

Alcuni ospiti avevano indicato nella mia direzione.

“Sei tu Megan?”

“Sì.” Sembrava proprio che la mia festa avesse ufficialmente una porta aperta. Lasciavamo entrare chiunque, anche chi portava borse di carta.

Aspetta un attimo.

Un tizio che portava una borsa di carta? Perché c’era un fattorino della consegna a domicilio alla mia festa?

“Consegna per te. Qualcuno ha ordinato questo e ha detto che dovevo assicurarmi che venisse consegnato direttamente a Megan.” Mi aveva guardato come se avessi dovuto saperne qualcosa. Come se l’avessi pianificato. Come… oh, voleva la mancia.

“Seguimi.” Avevo degli spiccioli in cucina. Gli avevo dato una banconota da venti dollari per un ordine che non avevo fatto, lui mi aveva ringraziato e aveva posato la borsa.

Dopo averla spacchettata, avevo trovato alcune vaschette grandi di queso. Ma certo. Se non fossi stata mezza sbronza, lo avrei capito prima.

Avevo trovato anche una ricevuta che mostrava l’addebito per il queso, le spese di consegna e una lauta mancia per il fattorino, tutto prepagato.

Mi sentivo un’idiota totale e non solo per la mancia da venti dollari.

2

Ero andata a letto davvero tardi quella sera.

Davvero tardi.

Dopo altri drink. Potenzialmente parecchi altri drink, perché non riuscivo a ricordare esattamente quanti fossero stati.

Quello che ricordavo erano i messaggi.

Con un villoso sexy.

Messaggi da ubriachi.

Quando la sveglia s’era messa a suonare, a una certa ora strana, mi ero girata e l’avevo spenta, perché ero troppo stanca, con troppi postumi da sbornia, troppo impreparata ad affrontare la vita anche solo per cominciare a prendere in considerazione gli eventi della sera prima.

Ma poi la sveglia aveva ripreso a suonare, e poi ancora.

Alla quarta volta ero abbastanza sveglia da ricordare quei fottuti messaggi. Tranne che nessuno era così stupido, nemmeno la me ubriaca delle tre del mattino.

Mi ero sfregata gli occhi e avevo toccato l’icona dei messaggi, cercando di ignorare il fatto che erano le 6:37 del fottuto mattino e la notte prima avevo dormito meno di quattro ore.

Ma lì c’era tutto: la mia stupidità, immortalata per sempre nello storico dei miei messaggi.

Io: Hey figo chitarrista barista uomo peloso

Figo peloso: Fammi indovinare… Megan

Io: Sì! Sei molto più intelligente di quanto sembri

Wow, stavo veramente incarnando la mia malefica stronza interiore con quello. Apparentemente, la mia malefica stronza interiore era meno carina alle tre del mattino di quanto fosse stata prima, durante la serata, perché erano trascorsi parecchi minuti senza ricevere risposta da Oliver. La me ubriaca aveva deciso di pungolarlo.

Io: Grazie per il queso. È stato molto carino da parte tua.

Figo peloso: Era il minimo che potessi fare dopo che mi hai accusato di averlo mangiato tutto.

Apparentemente, la me ubriaca era confusa per questo, non vedendo l’ironia di un uomo ingiustamente accusato che faceva quella dichiarazione, ma sapendo che c’era qualcosa di sbagliato.

Io: Dannatamente diretto. Aspetta. Sei stato tu a mangiare il queso? O non sei stato tu a mangiare il queso?

Figo peloso: Ti sembro uno che consuma due chili di queso in una sera?

Io: Sembri uno che scopa molte donne

Io: e uno che ha decisamente molta energia nel cazzo

Io: O forse no?

Io: Oppure il tuo cazzo è così grosso che nessuno nota la pancia da queso

Wow. La me ubriaca delle tre del mattino era fottutamente sfacciata. E giudicante. In realtà non pensavo che un uomo dovesse avere gli addominali scolpiti per essere fisicamente attraente.

Però non avevo detto che la sua ipotetica pancia da queso fosse non attraente, solo che in confronto al suo mostruoso cazzo spariva.

Bel problema. Qualcuno dovrebbe togliermi il telefono quando sono ubriaca. La mia migliore amica, Becca, mi chiama stronza malefica, ma per lo più è per scherzo. In realtà non sono una stronza malefica… di solito.

Io: Ci sei?

Figo peloso: Sto ancora elaborando.

Forse, a questo punto avevo rivisto i miei messaggi e mi ero resa conto di avere esagerato? Non ero sicura di cosa pensassi. L’intera conversazione era piuttosto maledettamente confusa.

Io: Um, scusa?

Figo peloso: Pensi di chiedermi scusa o mi chiedi scusa?

Io: È più che certo che ti chiedo scusa, ho deciso di mandarti messaggi da ubriaca nel cuore della notte

Figo peloso: Perché l’hai fatto?

Io: Perché hai risposto?

Oh, guardami, ubriaca e ancora in grado di essere evasiva. Bel lavoro, Megan ubriaca.

Figo peloso: Ero sveglio. Non riuscivo a dormire.

Figo peloso: Ed ero contento di sentirti.

Io: Davvero?

Beh, cavolo. Avevo fatto bene per un minuto, ma la me ubriaca aveva decisamente bisogno di un po’ di attenzioni.

Figo peloso: Davvero. Ti avevo dato il mio numero. Sono decisamente contento di sentirti. Anche alle 3:17 del mattino.

Figo peloso: Esci con me.

Io: Lo dici così?

Figo peloso: Non è così che funziona? Un ragazzo conosce una ragazza e le dà il suo numero. La ragazza chiama. Il ragazzo le chiede di uscire.

Io: Non sono sicura che funzioni in questo modo.

Figo peloso: Ok

E poi Oliver aveva fatto un po’ il malefico di suo. Quell’uomo sapeva di avere a che fare con una donna ubriaca che aveva una durata dell’attenzione pari a quella di un moscerino e la pazienza di una pulce.

Aveva aspettato. Tre minuti.

Io: Cosa intendi con ok?

Figo peloso: Hai detto che non funziona in questo modo. Sono d’accordo.

Io: Ma… non dovresti semplicemente rinunciare.

Di nuovo il bisogno di attenzioni. La me ubriaca faceva pena.

Figo peloso: Cosa dovrei fare?

Io: Riprovare?

Figo peloso: Hm.

Oh, sì. Quell’uomo stava incanalando la sua parte malefica. Questa volta la stronza ubriaca aveva resistito soltanto un paio di minuti, e visto il modo in cui le marche temporali funzionano, suppongo che in realtà fosse passato un minuto e mezzo.

Io: Dovresti decisamente riprovare.

Figo peloso: Dovrei? Magari il mio ego è fragile. Magari, distruggendomi come hai fatto, hai mandato in frantumi quel po’ di fiducia in me che avevo.

Io: Balle. Dovresti decisamente ritentare.

Figo peloso: Che ne dici di sistemare la cosa con una sfida?

E bam, quell’uomo mi aveva fatta sua. Mi piace una buona sfida. A chi non piace?

Io: Ci sto.

E a parlare era stata decisamente la Megan ubriaca che più ubriaca non si può. Mi potrà anche piacere una buona sfida, ma tutti sanno che non accetti senza stabilire i parametri, i paletti e le regole.

La me ubriaca aveva appena fatto una mossa da principiante.

Figo peloso: Eccellente. Yoga all’alba tutti i giorni per tutto il mese di novembre.

Forse la me ubriaca aveva avuto un barlume dell’idiozia delle sue azioni. Sicuro come la morte che doveva averlo avuto. Avrei voluto prendere a schiaffi la me ubriaca, ma sarebbe stato controproducente vedendo quanta me ubriaca fosse ancora me. Dannazione.

E sarebbe stata questa me che avrebbe fatto cose che sembravano un po’ una tortura. Alzarsi all’alba. Piegare il mio corpo in modi in cui non era predisposto a piegarsi.

Figo peloso: Ci sei?

Io: Sì. Parametri?

Figo peloso: La seduta da venti minuti di yoga comincia all’alba. Il primo che salta una seduta perde. D’accordo?

Io: Maledizione, sì.

Figo peloso: Ti manderò un link. Devi collegarti ogni mattina all’alba. C’è un’app.

Tutto questo sembrava assai sospetto alla luce del giorno. Oliver, così per caso, conosceva un’app per sfide di yoga all’alba? Il tipo era chiaramente uno yogi o come volete chiamare le persone che eccellono nel piegarsi in varie pose allenandosi ossessivamente.

Oh, giusto, quelle persone vengono definite pazze.

Specialmente quando si alzano al sorgere del sole per fare quelle stronzate di piegamenti.

Io: Regole?

Figo peloso: Fatti vedere in orario, resta per l’intera seduta e fai un tentativo onesto per ogni posa, modificandola appropriatamente.

Io: D’accordo. E i paletti?

Figo peloso: Chi perde paga un forfait a scelta del vincitore.

E questo è il motivo per cui soltanto un’idiota avrebbe accettato una sfida prima che parametri, regole e paletti venissero stabiliti chiaramente. Sapevo che era meglio farlo prima di buttarsi alla cieca in una sfida. Peccato non poter dire lo stesso della Megan ubriaca.

Io: Va bene.

Figo peloso: A proposito, domani l’alba è alle 6:46.

La mia risposta era stata una varietà di emoji e comprendeva il mio dito preferito.

La sua risposta era stata la faccina che ride così tanto da piangere.

E poiché anche la Megan ubriaca odiava perdere una sfida, avevo messo cinque sveglie. Ecco perché ora ero sveglia alle…

Una rapida occhiata al telefono aveva rivelato che era un’ora impossibile: le 6:44.

Cazzo!

Avevo due minuti. Non avevo intenzione di perdere quel patetico pezzo di merda di sfida proprio il primo giorno. Avevo cercato il link e mi ero rapidamente registrata, riuscendo appena in tempo a presentarmi alla prima seduta in programma.

Sul display c’era un timer che visualizzava un conto alla rovescia; erano rimasti ventisette secondi. Mentre quei secondi scorrevano all’indietro, il mio Io stanco, con i postumi della sbornia, ma non ubriaco, aveva considerato che da quella stupida sfida Oliver non avrebbe guadagnato assolutamente niente.

Quell’uomo doveva sapere che ero stata sul punto di accettare di uscire con lui. Se si fosse solamente preso la briga di chiederlo di nuovo, avrei detto sì.

E a cosa sarebbe servito, a entrambi, un mese di fottuto yoga?

Quando la prima seduta era cominciata, mi ero resa conto di come esattamente mi avrebbero fatta sentire i successivi trenta giorni di yoga mattutino.

Arrapata.

E frustrata.

Probabilmente anche con tendenze omicide, se l’immagine sullo schermo era un assaggio dei successivi trenta giorni.

Oliver era l’istruttore.

E no, Oliver non aveva la pancia da queso. Non aveva nemmeno un pacco da sei.1

No, aveva un pacco da otto, di cui riuscivo a vedere ogni cresta e ombra – persino sul minuscolo schermo del mio telefono – perché l’essere divino precedentemente conosciuto come Oliver, detto Figo Peloso, era a torso nudo.

E che cazzo indossava come pantaloni?

Mi era venuto bisogno di farmi aria.

Pantaloni, un corno. Non erano nemmeno pantaloncini. Sembravano più degli slip.

Beh, non coprivano solo le natiche. Saranno stati a mezza coscia, ma mentre lui si muoveva, gli short, che aderivano ai suoi glutei muscolosi, mostravano flash dei suoi quadricipiti gonfi.

Avevo inspirato profondamente, come da sue istruzioni, poi avevo cominciato a seguire il divino Oliver e la sua voce flautata mentre mi guidava in una routine yoga di venti minuti.

Come avrei fatto a gestire una cosa del genere per trenta giorni?

3

Avevo finito la routine yoga, ma non mi sentivo Zen né rilassata, né come cazzo ci si dovrebbe sentire dopo aver fatto yoga all’alba.

Mi sentivo arrabbiata.

Frustrata. Dal punto di vista sessuale, naturalmente. Chi non lo sarebbe stato dopo aver guardato Oliver Watson e il suo perfetto, potente corpo muoversi fluidamente su un grande schermo per venti minuti? (Sì, ovviamente avevo trasferito il suo corpo sensuale sul mio televisore a grande schermo. Quell’uomo era un’opera d’arte.)

Sciocca. Mi sentivo decisamente sciocca. L’ubriachezza non era una scusa sufficiente per impegnarmi trenta giorni in quello.

E testarda, perché anche se potevo porre fine al mio tormento – o guardarlo su uno schermo più piccolo – non volevo. Avevo intenzione di vincere questa sfida, anche se avessi dovuto vivere in uno stato di arrabbiata frustrazione sessuale per il mese successivo.

Dopo avere provato, senza riuscirci, a ritornare a letto – apparentemente lo yoga arrabbiato mi aveva dato energia – avevo preso una tazza di caffè. Poi un’altra.

E proprio mentre stavo per chiamare Becca – perché chi, meglio della mia migliore amica, poteva capire il mio irrazionale bisogno di continuare questa sfida nonostante la follia che era il corpo mezzo nudo di Oliver Watson? – mi chiama lei.

Con un problema. Uno di quelli seri, che richiedeva il mio totale supporto emotivo. Il mio problema, che era minuscolo e auto-inflitto, avrebbe dovuto aspettare.

Il riavvolgimento della percezione di Becca dava i numeri, la qual cosa, sinceramente, mi spaventava. Senza la capacità di accedere ai ricordi recenti di un donatore umano per manipolarli, come avrebbe fatto a nutrirsi?

I vampiri non hanno bisogno di molto sangue fresco per sopravvivere, ma senza una piccola quantità a intervalli regolari noi soffriamo di privazione di sangue (che non è bello) e poi di inedia da sangue (potenzialmente fatale).

E poiché i vampiri sono sempre stati un grande, grosso segreto, lei non avrebbe potuto semplicemente andarsene in giro per la città a mordere persone a caso senza alterare la loro percezione del morso. Avremmo risolto la cosa, e nel frattempo mi sarei assicurata che ricevesse il suo nutrimento, ma la faccenda restava preoccupante. Il nutrimento di squadra non sarebbe stato una buona soluzione a lungo termine, per cui dovevo avere fede nel fatto che avremmo trovato un sistema.

E come se non bastasse, la mia migliore amica soffriva anche di un caso di forti emozioni, il che era… complicato.

I suoi problemi erano decisamente più grandi dei miei. Questo era uno di quei momenti nell’amicizia in cui io dovevo essere quella che sosteneva e non quella da sostenere.

Dopo avere parlato con Becca dei suoi problemi, avevo bevuto un’altra tazza di caffè e avevo deciso che era ora di chiamare gli altri miei rinforzi. Becs era la mia persona di riferimento. L’amica più intima che avessi. E sebbene non le avessi rivelato alcuni segreti (per il suo stesso bene), lei mi conosceva meglio di chiunque altro.

Ma, in realtà, avevo altre amiche. Poiché volevo limitare l’umiliazione della sfida a seguito dei miei messaggi da ubriaca, per quanto possibile, dovevo scegliere: Yvette o Kayla?

Kayla, ultimamente, non si era fatta viva molto. In parte perché viaggiava per lavoro, ma anche quand’era in città era sempre difficile da trovare. Stava affrontando qualcosa. Avevo provato a contattarla, ma era una persona riservata, per cui non ero rimasta sorpresa quando aveva dichiarato che andava tutto bene. Tutto quello che potevo fare era offrirle di esserci – e magari non scaricare su di lei il mio dramma personale.

Quindi, Yvette era la fortunata vincitrice della mia lotteria dell’eccessiva condivisione.

Yvette era un tesoro. Un tipo dai modi grezzi, ma per me andava bene così. Se fosse stata del tutto arrendevole, beh… l’avrei lasciata perdere.

Lei ascoltava e mi dava dei buoni consigli. Dopo se la faceva sotto dalle risate. Ma io meritavo di essere derisa; la me ubriaca era un disastro.

Oltretutto, Yvette era stata alla festa ieri sera. Magari aveva notato Oliver.

Avevo deciso che potevo parlare e lavoricchiare in casa allo stesso tempo. Ero più che sveglia, per cui avrei anche potuto dedicarmi alle mie tradizionali pulizie post-festa, quelle che facevo dopo ogni festa alcolica che davo. Era più un riordinare post-festa, perché il servizio di pulizia era programmato per lunedì, ma doveva ancora venire e io potevo decisamente lavorare in multitask.

Yvette aveva risposto subito, un buon segno poiché era abbastanza presto. Lei non era rimasta alzata fino alle 3:17 a scrivere messaggi da ubriaca a un musicista barista.

“Qual è l’emergenza? Passo a prenderti e ti porto all’ospedale?” Non sembrava in preda al panico, quindi quella era la sua idea di essere spiritosa.

“Per quello c’è Uber. Ho bisogno di un consiglio.”

“Per quello ci sono le ambulanze, Megan. Che la dea ci salvi. E non sono sicura di avere preso abbastanza caffeina per qualsiasi cosa tu stia per dirmi.”

Pura Verità. Non telefonavo di frequente, preferivo mandare messaggi. E chiedevo consigli con ancora minore frequenza.

“Prepara il caffè mentre ascolti.” Ma il mio suggerimento non era necessario. In sottofondo potevo sentire scorrere l’acqua dal rubinetto. “Ricordi il bambinone peloso di ieri sera?”

“Tu pensi che qualunque uomo che non indossi un completo a tre pezzi sia un bambinone. Sii più specifica.”

Forse una quarta tazza di caffè era una buona idea. Decisamente.

Dirigendomi in cucina avevo detto, “Viviamo a Austin. Nessuno indossa un completo a tre pezzi, a meno che non vada a un matrimonio.”

“Um-hmm. Al tuo matrimonio, forse. Allora, stavamo parlando di uomini pelosi. Un uomo peloso in particolare, che non indossava un completo a tre pezzi. Quando dici peloso, di cosa parliamo? Peli sul torace anni ‘70, abbastanza lunghi cosicché la sua catena d’oro si perda tra essi? Riccioli fluenti imbrigliati in uno chignon da uomo? Dammi qualche indizio.”

Nel sentire il riferimento alla catena d’oro, mi era quasi caduta di mano la tazza di caffè appena riempita. “Wow, non so cosa dire. Ho la sensazione che, forse, di nascosto guardi vecchi porno.”

“Aw, tesoro, non sono vecchi porno. Sono classici porno.”

Non lo aveva negato. “Guardi classici porno senza di me?”

Una volta, a tarda sera, eravamo capitate su un film per adulti e c’eravamo divertite a ridere della storia – quale storia? – e dei movimenti con sottofondo musicale di lui. Avevamo guardato soltanto l’inizio. Guardare la parte dove lui asfaltava l’aiuola della povera donna con il suo attrezzo per trenta ore di fila e lei se ne stava lì a prenderlo non sarebbe mai successo.

Quel genere di porno era il motivo per cui il mondo, ora, è diventato amichevole verso le donne, porno non-completa-merda, quindi forse non era stata una completa perdita di tempo?

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